Di Riccardo Morgante
La parola d’ordine è una sola: imprevedibilità. Da quando, per la seconda volta, Donald Trump è si è insediato alla Casa Bianca, ha subito posto le basi della sua politica estera. Il tycoon mira a perseguire – seppur con toni e modalità differenti – una postura internazionale che, tra i corridoi del Pentagono, perdura sin dai tempi di Obama: una costante oscillazione tra disimpegno e interventismo, come dimostrano, del resto, i recenti eventi in Medio Oriente. Non è certo esente da questa strategia un’altra area del globo di cruciale interesse per gli Stati Uniti, che, con il trascorrere del tempo, si rivela sempre più strategica per i principali attori globali: l’Indo-Pacifico.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Stati Uniti e Giappone hanno intessuto proficue relazioni diplomatiche, capaci di generare vantaggi strategici e commerciali per entrambi. Se da un lato il Giappone è riuscito ad avviare un processo di modernizzazione della propria struttura economica e istituzionale, dall’altro gli Stati Uniti hanno potuto contare su un alleato leale in un’area geografica di primaria importanza, che consente di contenere due minacce: quella nordcoreana e, soprattutto, quella cinese, vero fulcro della questione.
Tuttavia, qualcosa potrebbe essere cambiato. I tempi del deep engagement, in cui Washington interveniva ovunque, sembrano finiti. E non si tratta di una strategia riconducibile all’America First dell’era Trump, ma di una postura che gli Stati Uniti hanno iniziato a perseguire già con l’amministrazione Obama, o più precisamente nel periodo successivo a George W. Bush. Fu allora che al Pentagono si comprese che l’impiego massiccio di truppe americane in giro per il mondo non avrebbe garantito risultati soddisfacenti, o che, forse, i costi avrebbero superato i benefici. Questo orientamento prende il nome di retrenchment: una strategia adottata quando l’attore egemone estende eccessivamente la propria proiezione geostrategica, al punto da non poter più controllare efficacemente confini e basi distanti. Per evitare il collasso, si preferisce, dunque, una ‘ritirata’ contenitiva.
Tale disimpegno non si è manifestato solo con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan o con il mancato coinvolgimento diretto sul terreno ucraino per contenere l’aggressione russa, ma anche in una revisione degli accordi internazionali, in particolare di quelli militari, con partner un tempo considerati strategici. E il Giappone potrebbe non essere esente da questa nuova traiettoria.
Siamo tutti sotto lo stesso cielo: sia gli stati europei che il Giappone si trovano oggi a dover affrontare una decisione cruciale. In un contesto in cui l’Europa deve difendersi dagli scossoni geopolitici provocati dall’avanzata russa e per il Giappone deve contenere la minaccia cinese nelle proprie acque, la questione è una sola: l’aumento delle spese militari.
Pur con cifre diverse, Washington ha suggerito all’alleato asiatico di portare la spesa per la difesa al 3% del Pil. Una richiesta che, nel tempo, è lievitata al 3,5%. La pressione dell’amministrazione americana ha suscitato immediate reazioni da parte giapponese, culminate nell’annullamento degli incontri tra rappresentanti di Tokyo e membri dell’entourage di Trump previsti per il 1 luglio. Si tratta dei cosiddetti incontri ‘2+2’, meeting bilaterali di massima priorità per il Giappone, che rappresentano un’occasione politica chiave per dimostrare ai vicini cinesi e nordcoreani la solidità dell’alleanza con gli Stati Uniti e le garanzie che ne derivano.
Il segretario di Stato americano, Marco Rubio, e il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, avrebbero dovuto incontrare, a Washington, il ministro della Difesa giapponese, Gen Nakatani, e il ministro degli Esteri, Takeshi Iwaya, in un colloquio che, alla luce della continua espansione cinese lungo la cosiddetta “collana di perle” – asse strategico della nuova Via della Seta marittima – avrebbe avuto il compito di mettere i puntini sulle i in un quadro geopolitico sempre più teso. Pechino, infatti, minaccia l’intera stabilità del Mar Cinese Meridionale, mirando a inglobare, attraverso la cosiddetta linea dei nove punti, un’intera area strategica, escludendo di fatto gli altri attori regionali.
Tuttavia, va precisato che Washington, per ora, non intende abbandonare i propri alleati. Quella messa in atto da Trump è una strategia subdola di brinkmanship (politica del rischio calcolato), che mira a esercitare pressione non solo verso nemici e avversari storici, ma anche nei confronti dei partner, come dimostrano i dazi imposti all’Unione europea: prima proclamati a gran voce, poi ritirati nel giro di pochi giorni.
Basare la propria sicurezza sull’imprevedibilità, però, non è una strategia sostenibile, e i giapponesi lo sanno. Da subito hanno intensificato le esercitazioni militari congiunte con i partner regionali, in particolare con le Filippine. L’esercitazione, che si è tenuta a metà giugno, è stata organizzata dopo che Tokyo avrebbe confermato la presenza di due portaerei cinesi nelle acque del Pacifico, accusando la Cina di aver fatto decollare un caccia da una di esse in prossimità dei confini giapponesi – una delle classiche manovre intimidatorie di Pechino nei confronti dei vicini. Secondo l’ammiraglio giapponese Yoshio Seguchi, queste esercitazioni, insieme alle cooperazioni tra guardie costiere e forze navali che proseguono dallo scorso anno, fanno parte di un progetto più ampio: garantire un Indo-Pacifico libero e aperto, promuovendo contesti di comprensione e fiducia reciproca tra gli attori regionali, sempre più concordi nel percepire la Cina come una minaccia concreta.
L’America First e la strategia isolazionista di Trump hanno condotto a un mutamento della postura americana nel Pacifico. Lo si evince soprattutto dal modo in cui la dirigenza statunitense interagisce con i propri alleati. Tuttavia, ipotizzare un totale disimpegno di Washington dall’area sarebbe sbagliato, perché gli Stati Uniti hanno interesse a mantenere la propria presenza nella regione, per contenere l’ascesa cinese ed evitare che Pechino possa proseguire nella sua proiezione geostrategica e commerciale.
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